10 Luglio 2025

Zarabazà

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Dentro il mondo degli head hunter: evoluzione di una figura tra LinkedIn, intuizione e ricerca

Una figura in via d’estinzione o semplicemente invisibile?

Headhunter: chi sono davvero? Professionisti del lavoro altrui o personaggi da film d’ufficio? In un’epoca in cui tutto passa da LinkedIn, in cui ci si “candida con un click” e gli algoritmi decidono chi è rilevante, ha ancora senso parlare di chi il lavoro lo trova (agli altri) per mestiere? O siamo di fronte a una professione in declino, sostituibile da piattaforme, parole chiave e sistemi automatici?

Un pomeriggio passato nell’ufficio di BestTechPartner, a Milano, mi ha chiarito parecchi dubbi. Ecco cosa ho scoperto.

Un ambiente operativo, reale, lontano dai cliché

L’immagine non è quella che ci si aspetta dai racconti social sul lavoro dei recruiter. Nessuna estetica patinata, nessuna posa da copertina. C’è invece concentrazione, attenzione ai dettagli, postazioni operative dove tutto è funzionale alla ricerca.

Qui c’è il suono dei tasti del PC, telefoni che squillano, monitor con schermate di Excel, CRM, LinkedIn, profili GitHub, lavagne piene di frecce, nomi cancellati, note scarabocchiate….

L’atmosfera è quella di un ufficio “strategico”, dove ogni dettaglio ha una funzione precisa. Non è il classico ambiente da risorse umane: qui il focus è sulla ricerca attiva, sulle connessioni e sull’analisi mirata.

Hanno bisogno di te, anche se non ti cercano

C’è una cosa che mi ha colpita subito: gli headhunter non aspettano che tu li contatti. Non vogliono CV “aggiornati” né candidati perfetti. quello che cercano sono persone presenti, attive nel loro ambiente, non semplici CV archiviati.

Cosa vuol dire? Che spesso, la persona giusta non ha nemmeno idea di essere cercata. Sta lavorando, non ha un CV sul desktop, non è iscritta a portali di recruiting. Ma è visibile: perché crea contenuti, discute, partecipa, ha scritto un articolo tecnico, è attiva in community settoriali….È lì, presente… e l’headhunter la intercetta.

“Cerchiamo segnali, non richieste.”

È una frase che mi sono segnata. E spiega bene perché in questo lavoro serve più intuito che software.

La differenza tra chi cerca lavoro e chi è trovato

Chi cerca lavoro sa, quasi sempre, cosa vuole. Chi viene trovato, invece, scopre qualcosa che non sapeva di voler cambiare. È questo il punto debole e affascinante del lavoro dell’headhunter: non si limitano a trovare un profilo, trovano una finestra. Di tempo, di stanchezza, di desiderio di crescita, di voglia di cambiamento…

In quel momento si infilano, e propongono.

Alla fine della giornata, ho realizzato una cosa semplice: l’headhunter passa la maggior parte del tempo analizzando profili. Non seleziona, analizza.

Non basta avere un titolo corretto: vogliono sapere con chi hai lavorato, se ti sei fatto promuovere o se ti sei fatto rispettare. Vogliono osservare come ti muovi nel tuo contesto: se prendi posizione o ti mantieni neutrale, se condividi idee originali o ti limiti a rilanciare. Vogliono capire se sai farti notare quando serve, o se resti ai margini anche quando potresti fare la differenza.

Il CV è solo una delle fonti e spesso viene dopo.

“Pochi ma buoni”

Un mito da sfatare: le aziende non vogliono 1000 candidati. Meglio pochi, ma giusti.

Preferiscono parlare con qualcuno che abbia già fatto scremature, verifiche informali, confronti non ufficiali. Il vero valore dell’headhunter sta lì: nel dire no prima che arrivi il colloquio.

Mi hanno spiegato che i migliori clienti sono quelli che non pubblicano mai un annuncio. Che aprono una posizione solo se c’è già qualcuno che può occuparla. E se non c’è ancora, se lo fanno cercare.

Un errore di valutazione, un match fatto male, una proposta sbagliata: costa. All’azienda, ma anche a loro. Perché chi fa questo mestiere vive di reputazione. Se metti la persona sbagliata nel posto sbagliato, ti ricorderanno. Se invece sei quello che ha fatto trovare la figura giusta prima che ne sentissero la mancanza, resti nel radar.

Oltre l’algoritmo, resta lo sguardo

I software leggono quello che scrivi. Gli headhunter cercano quello che non dici.
Un algoritmo può trovarti se usi le parole giuste. Ma uno sguardo umano può vederti anche mentre stai cambiando direzione.

E forse è proprio qui il valore di chi fa questo lavoro: non ti propone un’offerta, ti propone una possibilità.
Che a volte arriva fuori tempo, fuori piano, fuori algoritmo.
Ma nel momento giusto.

Alla fine, il mondo degli headhunter è molto meno patinato di quanto ci si immagini. È fatto di telefonate che durano più del previsto, confronti a bassa voce, nomi scritti a matita e domande che servono a capire, non a selezionare.

Eppure, in tutto questo lavoro c’è qualcosa che l’algoritmo ancora non sa fare.

Perché in un mondo dove tutto è visibile, prevedibile, profilato… c’è ancora qualcuno che lavora nel sottotraccia. Che sa chi sei e ti cerca, anche se tu ancora non lo sai.

E no, LinkedIn da solo, non basta.