
Il 9 agosto 1883 Lidia Poët divenne la prima donna in Italia ammessa all’esercizio dell’avvocatura, riuscendo a vincere le resistenze di numerosi colleghi maschi, che non potevano accettare una donna nell’Ordine degli avvocati. L’ostacolo più grande sulla strada di Lidia Poët fu il Regno d’Italia. Il primo a opporsi al suo voler diventare avvocata, fu addirittura un ex ministro dell’interno, Desiderato Chiaves, e poi la stessa procura generale del Regno.

L’approccio moderato e razionale è presente anche nella sua tesi di laurea, dal titolo “Condizione della donna rispetto al diritto costituzionale e al diritto amministrativo nelle elezioni. Dissertazione per la laurea in legge”. Qui, anziché difendere in modo acritico l’attribuzione del diritto di voto alle donne, Lidia preferisce guardare alla situazione concreta: che senso ha dare alla donne la possibilità di esprimere il proprio voto se le stesse si trovano in uno stato di profonda ignoranza? Con le sue parole: “Il voto alle donne nelle condizioni presenti sarebbe un male, come lo sarebbe a mio credere il suffragio universale agli uomini; le nostre condizioni di cultura intellettuale vi si oppongono”. Si può scorgere già in questa occasione l’attenzione per la questione educativa femminile; senza un’istruzione adeguata, senza una conoscenza e una comprensione dei meccanismi di voto, così come dei contenuti delle proposte politiche e degli orientamenti dei partiti, quale voto potrà mai esprimersi? Non certo un voto consapevole e libero, che è, invece, l’obiettivo da perseguire.

Lidia è ben avveduta del fatto che per arrivarci la donna deve essere portata fuori dal “cerchio della famiglia”, da quella sfera privata che per le donne era divenuta una gabbia; la donna deve essere messa nelle condizioni di potere camminare “accanto all’uomo come una compagna e non trascinatavi come una schiava”. E’ noto che le donne italiane avrebbero potuto votare per la prima volta tra marzo e aprile del 1946, per le elezioni amministrative di alcuni comuni, e successivamente avrebbero votato il 2 giugno del 1946, per il referendum istituzionale e per l’elezione dei componenti dell’Assemblea Costituente, avviando il cammino verso l’eguaglianza tra i sessi della Costituzione repubblicana. L’iscrizione all’Ordine degli Avvocati di Torino non fu però il finale lieto del percorso di Lidia, ma l’inizio di una lunga guerra, che si chiuderà con la sua vittoria solo molti anni dopo, nel 1920, quando aveva ormai 65 anni.

Lidia non si arrese e impugnò la decisione della Corte d’Appello in Cassazione. L’esito non sarebbe cambiato, poiché, venne confermata la decisione di primo grado, ma la Corte di Cassazione si mostrò più astuta nelle sue argomentazioni, evitando di scendere su un terreno apertamente discriminatorio e trincerandosi dietro la scelta del legislatore, che non aveva aperto alle donne la professione forense. Nella sentenza fu, peraltro ripreso, un più risalente aspetto, quello della sensibilità femminile: le donne non sono adatte alla professione di avvocato non perché meno dotate intellettualmente rispetto all’uomo, ma perché prevalgono in esse “talune facoltà dello spirito su altre”. Si tratta di un argomento che ha resistito fino ai nostri giorni, come ricorda che porta, ad esempio, a ritenere le donne più idonee a dedicarsi al diritto di famiglia che non al diritto societario, sia in qualità di avvocato, che in qualità di magistrato. Lidia, ormai privata della possibilità di essere avvocata, che scelse di esprimere il proprio impegno affiancando il fratello Enrico, anche lui avvocato, presso lo studio di famiglia, trattando cause che non avrebbe mai potuto discutere e scrivendo atti che non avrebbe mai potuto firmare. Si dedicò anche alla questione dei diritti dei detenuti e alla funzione rieducativa della pena e al diritto di voto delle donne. Lidia muore nel 1949, ormai molto anziana; muore da avvocata, avendo potuto ottenere l’iscrizione all’Ordine nel 1920; e muore all’alba della Costituzione repubblicana, che avrebbe inaugurato una nuova stagione per la parità tra i sessi.
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