La stagione n° 0 della Sala Futura si conclusa con “Dal tuo al mio” di Giovanni Verga atto unico nell’adattamento di Nino Bellia e Alessandro Napoli; regia Elio Gimbo, aiuto regia Simone Raimondo; scene e costumi Bernardo Perrone.
Con Graziana Lo Brutto, Savì Manna, Loredana Marino, Plinio Milazzo e la Marionettistica Fratelli Napoli: Alessandro Napoli, Fiorenzo Napoli, Davide Napoli, Dario Napoli, Marco Napoli, Agnese Torrisi, Giacomo Anastasi;
produzione Teatro Stabile di Catania. Foto di Antonio Parrinello.
Lo spettacolo è stato realizzato nell’ambito delle celebrazioni del centenario della morte di Nino Martoglio, avvenuta tragicamente il 15 settembre del 1921.
“Tra Martoglio e Verga correvano trent’anni esatti di differenza, lo scarto giusto perché il primo riconoscesse nel secondo il proprio maestro assoluto, la propria guida; in questo perfettamente ricambiato, Verga non mancò mai di guidare, correggere, sostenere il giovane allievo” (Elio Gimbo).
Nel 1903, Giovanni Verga scrive (per il teatro, divenendo solo dopo un romanzo) “Dal tuo al mio”, nell’ambito di una produzione letteraria più sporadica, essendosi occupato delle sue terre, dei nipoti figli del fratello morto da poco e della fotografia.
Nina ed Elisa sono due sorelle, figlie del barone Navarra, proprietario della zolfatara in cui necessita l’investimento di capitali che non possiede; chiede alla figlia Nina (Graziana Lo Brutto) di sposare il figlio di tale Don Nunzio Rametta, assai benestante, per operare miglioramenti e dare ossigeno ai lavoratori. Gli atteggiamenti prevaricatori, le vessazioni, finte promesse scateneranno non solo lo scioglimento della promessa matrimoniale ma una vera e propria ribellione che culminerà in uno sciopero gestito con spietatezza in cui ne faranno le spese sempre i più deboli, secondo la visione affatto ottimista di Giovanni Verga.
La versione posta in essere dalla riscrittura “per uomini, pupi e pupari” di Alessandro Napoli e Nino Bellia (due penne garbate e colte), per la regia di Elio Gimbo, è in forma di prova generale, diretta da Nino Martoglio, in cui il regista si trova obbligato a ripetere le battute di Angelo Musco in ritardo in teatro. Lo aiuta Peppinino, lo scugnizzo siciliano che di tanto in tanto irrompe sulla scena a sollevare perplessità e cercare risposte sul perché la gente ricca non aiuta quella povera e si sfoci sempre nello scontro. Diversamente da Verga, scrittore/spettatore/cronista, Peppinino è l’eco dell’ingiustizia perpetrata ai danni della povera gente: la gente che si spezzava la schiena nelle miniere, a scavare ed estrarre lo zolfo che la Sicilia esportava soprattutto in Inghilterra e in America. Dalla fine dell’ ‘800 agli inizi del ventesimo secolo, le cronache sono ricche di capovolgimenti economici, politiche infami ai danni dei siciliani e risalite grazie a uomini lungimiranti come Vincenzo Florio. Gli impianti dovevano essere adeguati agli standard che erano stati promessi e non tutti riuscirono, a causa della sleale concorrenza dei cattivi della situazione, meschini e vili. Purtroppo, la tanto agognata unità d’Italia in Sicilia giunse con echi diversi: contadini, operai e minatori, che tanto avevano sperato, invece continuavano a subire le prepotenze di coloro che trattenevano senza ripartire e concorrevano al fallimento del movimento regionale denominato “I Fasci Siciliani”, avviati a Catania da Giuseppe De Felice e propagati verso altri capoluoghi siciliani.
Sentire parlare della Storia della Sicilia è importante: far conoscere e spiegare ai giovani cosa erano le Ciminiere di Catania, quelle dove oggi si svolge una vita di comunità culturale e ristoratrice. Attraverso una linea ferrata, incrementata apposta, si portava quella ricchezza chiamata “zolfo” dal cuore della Sicilia direttamente alle navi in attesa al Porto di Catania di raggiungere molte mete. Ragionare che ogni angolo della nostra terra, sotto le suole più volte rifatte, porta la polvere ceduta da innumerevoli esperienze: le antiche gesta, quelle da decenni riproposte dalla Marionettistica Napoli sopravvissuta con tenacia e caparbietà ad ogni imprevisto, spesso generato dall’ottusità umana.
Bernardo Perrone ha organizzato il palcoscenico della Sala Futura affinché potesse ospitare sia gli spazi di movimento degli attori in carne ed ossa che gli ambiti di manovra davanti ai quali recitano i pupi e sopra i quali lavorano i “manianti”; in prossimità del primo ordine di quinte, sulla destra Fiorenzo Napoli e sulla sinistra Davide Napoli ed Agnese Torrisi, i “parraturi”. L’efficacia della singolare commistione, che ha precedenti nei cartoni animati, genera emozioni surreali: dopo la prima meraviglia, si segue la storia trattenendo il respiro ed attendendo le batture di ciascuno.
Savi Manna assai somigliante a Nino Martoglio; Loredana Marino e Plinio Milazzo con i loro siparietti cantati sono davvero trascinanti, sollevano gli umori tristi e pesanti dei ruoli degli altri attori. Graziana Lo Brutto interpreta in modo verosimile la grande delle figlie pronta al sacrificio per amore del padre e Loredana Marino vivacissima, quasi un alter ego di Peppinino, è parecchio in sintonia con Plinio Milazzo col quale in scena coraggiosamente prenderà la decisione di sposarsi malgrado le circostanze.
La narrazione è condotta con ritmi pimpanti e si percepisce a tratti il dualismo del timbro di svolgimento: da cantiere per le prove, a greve e verosimile per gli eventi narrati. Il magnifico ausilio della Famiglia Napoli, pupari per antonomasia, conferisce quei toni di epicità che tanto fanno riflettere sul valore dei classici.
L’ausilio di alcuni brani musicali a commento scenico di epoca sfalsata risulta, a mio modo di vedere, è abusato e poco coerente: distrae senza convincere.
L’eco dei patimenti dei vinti ed il frastuono generato dalla noncuranza minacciosa dei prepotenti sono ricorrenti, magari con abiti diversi, tecnologie avanzate, ma riemergono il medesimo cuore nero del nemico più arido, del pupo più cattivo e l’animo più dimesso. L’adattamento di Nino Bellia e Alessandro Napoli trae forza ed efficacia nel rispetto delle coordinate classiche del verismo verghiano raffigurato anche dai pupi siciliani e genera con toni sommessi quel potere evocativo necessario allo spettatore che vuol forgiare un’opinione. Il motivo finale, scelto fra la musica di Bruce Springsteen, è una cantata che ben si adopera come sorta di sigla per immaginari titoli di coda che presentano al pubblico tutti i ruoli per i meritati applausi: attori in carne ed ossa, pupari manianti, pupari parraturi e i pupi che passa il tempo, cambiano le storie, ma sono sempre lì, belli e curati nei loro innumerevoli dettagli che li fanno diversi da tutti gli altri, operai instancabili che non vanno mai in pensione e che a guardare i quali tutti infine ci scopriamo a bocca aperta ed occhi spalancati per uno stupore che non lascerà mai il posto al disincanto.
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